Fonte: www.centrostudimeridie.it                                                                                                       RECENSIONE


IL RAZZISMO.
Storia di una malattia della cultura europea.
di Adolfo Morganti, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, pagine 89, 6 €
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Strano è come le parole talvolta cadano giù simili ad acquazzoni, per spugnare argomenti che potrebbero essere assai più asciutti e meno scivolosi. Più chiari e più luminosi. Potrebbero essere visti, insomma, al netto delle ombre proiettate sbadatamente dal solenne pressappochismo mediatico.
Certi temi, del resto, vengono resi “spendibili” grazie ai luoghi comuni, candide barricate d’ovatta, che di un argomento permettono una fruibilità massima con una comprensione minima.
Accade così che nei più vari luoghi, dalle trasmissioni sportive ai testi normativi dell’Unione europea, compaiano riferimenti al razzismo, al fatto che vada rifiutato e che sia una vera indecenza nei tempi moderni che viviamo, poiché esso sarebbe in sostanza un anacronismo rispetto al numero 2000 – il quale, oltre a rappresentare il nostro millennio, dicono sia anche una cifra abbastanza elevata e “dunque” ragionevole.
Eppure, come il ragazzo sensibile ai temi dell’ambiente si distrae tanto con il problema mondiale dell’acqua da lasciare il rubinetto aperto, così l’antirazzismo è troppo spesso un fervore privo di attenzione. Se la minaccia, per sopperire evidentemente alla propria innocuità, si autoproclama minacciosa, l’indignazione sboccerà in un tumulto apprensivo; se viceversa essa si veste di cravatte e camici dotti, il pericolo passerà inosservato o addirittura sfilerà applaudito.
Perché, di fondo, ad un’analisi del razzismo, si è preferito sempre il sensazionalismo giornalistico e politico che ha contribuito alla creazione di una serie di pregiudizi incapaci di “muoversi a tempo” e di comprendere la scaturigine del fenomeno in questione e tutte le sue possibili fattispecie.

In tal senso, il breve saggio di Morganti rappresenta un importante contributo allo studio di questo tema, andando ben più in fondo delle cause superficiali generalmente riconosciute e ben oltre il periodo 1933-‘45.
Inoltre, i frequenti riferimenti ad un autorevole studioso come Mosse ed il ricorso continuo alle fonti primarie testimoniano una serietà ed un metodo troppo spesso assenti nelle analisi degli accreditati professori “cartesiani”.
È dunque proprio grazie a questo approccio che Morganti afferma che il razzismo moderno è una “malattia della cultura europea”, poiché esso è germinato nel terreno profondamente europeo dell’Illuminismo. Difatti, in questo clima culturale si nutrì una tale fede nella mente da rendere il corpo una semplice emanazione della Ragione, una sorta di superficie sondabile per trarre le capacità celebrali dell’individuo e di interi popoli. Si giunse così alle “pseudoscienze” della frenologia e della fisiognomica, antesignane delle teorie materialiste del socialista Lombroso.

Tuttavia, per quanto concerne i contenuti metafisici, il pensiero razzista difficilmente avrebbe potuto reggersi sul solo dogmatismo razionalista, se in aggiunta non avesse attinto anche dalla realtà dell’Europa post-Riforma.
Come è noto, la pace di Augusta (1555) sospese le guerre europee di religione disponendo il principio cujus regio, ejus religio e facendo così coincidere l’appartenenza politica a quella confessionale. Inoltre, il protestantesimo evangelico, concentrando sempre più l’attenzione del credente sulle emozioni umane intese come “sentire comune”, attribuiva ad un gruppo territorialmente definito una spiritualità esclusiva.
Questo canale sarà sfruttato dai razzisti che crederanno di poter individuare con oggettività una razza e di attribuirle una mistica quando scientismo ed appartenenza spirituale “territorializzata” si uniranno in nefaste sintesi quale fu la Società Teosofica statunitense (1875), che precedette quelle ispirate al principio tedesco del Blut und Boden (“Sangue e suolo”).
Con l’aiuto poi di un’interpretazione “estensiva” delle teorie di Darwin, si giungerà ad iniziative come il Boone and Crockett Club statunitense (tra i suoi membri Theodore Roosvelt), che si prefiggeva l’obiettivo di difendere la razza bianca anche attraverso l’eugenetica, sicché, apprendiamo dal saggio qui trattato, «dal 1907, 31 stati dell’Unione [statunitense] adottarono leggi contro la contaminazione delle razze, parallele restrizioni sull’immigrazione e programmi di sterilizzazione coatta» (p. 29).

Sembra pertanto che il razzismo abbia attratto non solo i sostenitori dei totalitarismi Novecenteschi, ma anche i socialisti ed i liberali. Tanta trasversabilità e maneggevolezza del razzismo si spiegano evidentemente con quella che è poi la tesi di fondo del saggio: da più di due secoli il razzismo non si dispiega semplicemente nella Modernità come lascito medievale, bensì si spiega con la Modernità stessa, essendone figlio legittimo. Si comprende allora perché pensieri diversi ed apparentemente configgenti l’abbiano sostanzialmente condiviso: essi avevano «un retroterra filosofico largamente comune: comune materialismo filosofico, comune mito del progresso tecnologico, comune adozione dell’ideologia darwinista applicata alla società, comune riduzione degli aspetti più elevati della vita dei popoli e delle persone (la cultura e la spiritualità) al frutto dell’azione di elementi specifici, biologici e meccanici» (p. 41).
A questa affermazione si aggiunge la constatazione della persistenza di politiche razziste ben oltre il 1945: nella svedese sterilizzazione degli “inadatti” fino agli anni Sessanta, nel genocidio tibetano, negli imperi coloniali nel secondo dopoguerra («il diritto coloniale inglese giungeva a punire come un reato penale l’unione sessuale di un bianco con una persona di razza diversa dalla propria» - p. 69) e nell’eugenetica statunitense che dal 1909 al 1964 portò nella sola California del sogno americano alla sterilizzazione, secondo dati ufficiali, di 60.000 individui e all’internamento di un numero ancora maggiore di “inadatti”.
Concepire programmi di questa portata, ed ovviamente attuarli nonostante la sensibilità comune fosse relativamente simile alla nostra, implica un’attribuzione di potere allo stato decisamente spropositata e rispecchia – nota l’autore – la sostituzione dei vecchi dei con la deificazione dello stato.
Di questo nuovo culto laico, il genocidio rappresenta la manifestazione di massima potenza e libertà dalla morale. La micidiale arma dello sterminio programmato con fredda e lucida strategia, con razionale disposizione all’eccidio, ha trovato nella tecnologia del XX secolo un alleato efficiente e fedele. Ciononostante, e a riprova di quanto precedentemente detto circa l’origine del razzismo, il primo governo legittimo ad aver deciso e tentato di massacrare un’intera popolazione risale a quasi due secoli prima, e cioè all’anno in cui l’Assemblea Nazionale della Francia rivoluzionaria votò nel 1793 la legge che deliberava lo sterminio della popolazione vandeana.

Morganti cita il rapporto ufficiale che il generale incaricato dello sterminio presentò alla Convenzione: «Secondo gli ordini datimi ho fatto schiacciare i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, massacrato le donne che almeno perciò non faranno più figli che diventeranno briganti. Non ho prigionieri da rimproverarmi: ho sterminato tutti» (p. 79).
E nacque la Modernità.

Danilo Massa