Fonte: www.centrostudimeridie.it RECENSIONELa
scommessa della decrescita
Ogni volta che finisco di leggere un libro penso a cosa mi ha dato, a
come ha arricchito il mio bagaglio culturale. L’ultimo lavoro di
Latouche ha saldato in me la convinzione che la decrescita non è
un’utopia, né un progetto concreto: è una scommessa. Il titolo,
infatti, non è stato scelto a caso. Non è
un utopia perché le proposte e le iniziative ci sono; non è un
progetto concreto perché tali proposte ed iniziative, essendo ancora
troppe, sparpagliate e giovani, non obbediscono ad una strategia
unitaria. Ma va bene così, perché l’importante è partire e bisogna
farlo dal basso, dal locale, in tutto il globo. Il punto d’arrivo? È
da stabilire lungo la via, ma intanto sappiamo che partire non è una
scelta nel panorama delle alternative attuali: è una necessità. È
esattamente questo che l’autore ci dice quando parla di cambiamento
radicale: il mutamento di rotta dalla crescita verso la decrescita è
una scelta obbligata se non vogliamo andare incontro, nel migliore dei
casi, ad un futuro sterile, apatico, in cui si perde la voglia di vivere
(cose che già constatiamo nel tempo presente) e, nel peggiore,
all’estinzione della specie. Senza cadere in
discorsi puramente ideologici o proporre mondi idilliaci, Latouche
redige un vero e proprio manifesto della decrescita mettendo insieme
teorie, ora contrapposte, ora convergenti, di più personalità
autorevoli e proposte sorte dai dibattiti organizzati da associazioni e
movimenti che si muovono in questo senso e che talvolta,
nell’applicazione pratica, hanno riscontrato buoni risultati. Il tutto
viene ricondotto dall’autore, con grande capacità critica e
propositiva, ad una personale visione della decrescita. Il
libro si articola in due parti, precedute da una breve descrizione della
decrescita. Nella prima parte il professore espone tutti i motivi per i
quali è necessario scegliere la strada della decrescita, mentre nella
seconda parte ci indica come realizzarla. Va
innanzitutto precisato che decrescita
non è il termine opposto di crescita
(come invece è a-crescita, così come a-teismo) e non identifica un
modello pronto per l’uso, ma è piuttosto «uno slogan politico con
implicazioni teoriche […] una parola d’ordine che significa
abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita».
Con questo slogan ci si riferisce a qualcosa di completamente nuovo, che
porti ad un cambiamento radicale della situazione attuale in cui la
felicità e il benessere delle persone vengono misurate con un indice
puramente economico, il Pil, che, in realtà, misura la ricchezza
secondo un metro prettamente capitalistico, dimenticando che il ben-essere
di un popolo non coincide con il ben-avere. Ormai è un dato di
fatto che, seppur abbiamo una quantità enorme di oggetti e abbiamo
prospettive di lunga vita, la nostra serenità non è maggiore (anzi..)
di quella dei nostri genitori o dei nostri nonni e la nostra felicità,
è evidente, non è direttamente proporzionale al Pil. Nel libro si legge che
una società come quella della crescita, dove la felicità promessa ai
vincenti si traduce in accumulazione dei beni di consumo, in aumento
dello stress, dell’insonnia, delle turbe psicosomatiche e delle
malattie di ogni tipo, è una società profondamente in crisi,
soprattutto se per realizzarla si deve devastare indiscriminatamente
l’ambiente in cui viviamo, contribuendo ancora di più ad aumentare il
nostro malessere. Di
conseguenza, la società della decrescita è per Latouche una società
che deve innanzitutto ristabilire le sue priorità, basandosi sul
ben-essere ed eliminando tutti quei valori che hanno un effetto negativo
sulla serena sopravvivenza umana; una società che torni a vivere la
dimensione locale, riscoprendo una vita più sobria e frugale, quasi di
sussistenza, all’interno della propria comunità in cui il valore
principale è la solidarietà. Il tutto nel totale
rispetto dell’ambiente, senza per questo dover arretrare e regredire
ad uno stato primitivo, verso il quale, anche volendo, è impossibile
rivolgere lo sguardo. Come
perseguire questo obiettivo? Innanzitutto l’autore ci mette in guardia
su concetti apparentemente simili a quello della decrescita, ma che in
realtà non sono poi tanto differenti da ciò che la decrescita
combatte. Infatti, la decrescita non è paragonabile né allo sviluppo
sostenibile, né allo stato stazionario, né tanto meno alla crescita
zero; tutti concetti, questi, che ancora non abbandonano l’idea di una
società del ben-avere, necessariamente legata ad una società
capitalista. L’espressione “sviluppo sostenibile”, in particolare,
viene accusato – e a ragione – di essere un ossimoro. Attraverso lo
“sviluppo sostenibile”, infatti, si pretende di mantenere costante
la crescita economica – attraverso il continuo aumento dei profitti e
del tenore di vita – senza però danneggiare l’ambiente, bensì
salvaguardandolo. Praticamente si vuole continuare a depredare
l’ambiente senza recargli danno... È
chiaro dunque come il concetto di sviluppo sostenibile sia una semplice
trovata pubblicitaria utilizzata dalla politica su indicazione delle lobbies
industriali e finanziarie, al fine di continuare a percorrere
indisturbatamente la strada della crescita a tutto scapito
dell’ambiente, quindi a svantaggio della qualità della vita della
popolazione mondiale e, ancor più, delle popolazioni del sud del mondo,
che, incolpevoli e impotenti, vedono depredare le loro terre e mutare i
loro stili di vita. Di
conseguenza, il percorso da compiere per arrivare alla decrescita
non passa per presunte scorciatoie, che in realtà sono ingannevoli, ma
punta inequivocabilmente ad abbandonare il modello capitalista, che per
la sua esistenza pretende la crescita senza limiti. Chiarito
ciò, è facile capire qual è la prima tappa che ci viene posta:
decolonizzare l’immaginario. La
causa principale viene individuata nella scolarizzazione (riprendendo
Illich), che, non garantendo una giusta educazione – così come non la
garantiscono i genitori, a loro volta vittime dell’immaginario
dominante –, è colpevole di distruggere le nostre “difese
immunitarie” e, così facendo, di rendere vita facile ai media che ci
bombardano quotidianamente con la pubblicità, provocando una sorta di
ipnosi che induce inevitabilmente a consumare il più possibile.
Praticamente «la crescita, attraverso il consumismo, è diventata nel
contempo un terribile virus e una droga». Per
uscire da questo immaginario, bisogna innanzitutto desiderare di
uscirvi, lavorare sulla
nostra volontà ed entrare in azione, innanzitutto nel nostro piccolo,
perché il nostro primo nemico siamo noi stessi, incapaci come siamo di
attuare innanzitutto su di noi la trasformazione radicale. Dobbiamo
cioè convincerci e convincere gli altri che, oggi come oggi, non solo
l’abbondanza di merci non ci rende felici, ma, al contrario, meno
abbiamo e meglio stiamo. Se il consumismo è divenuto una droga, la
soluzione è disintossicarci. Per
Latouche dobbiamo ritrovare il senso del limite. Dobbiamo capire che ciò
che ci viene dato dalla natura è un dono che dobbiamo accogliere (e non
sradicare) nei limiti che la natura stessa ci pone, oltre i quali si
sconfina nella sua progressiva distruzione. A
questo punto, se non è possibile tornare al buon senso di ieri per
contrastare il “buon senso” di
oggi, bisogna costruire il buon senso del domani. A tal proposito,
Latouche appronta una sorta di programma della decrescita, sulla base
del quale costruire un piano d’azione. Il programma consiste nelle
“otto R”: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare,
ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Un programma comunque
indicativo, a detta dell’autore, che durante il suo percorso può
variare, nei limiti del variabile, purché rimanga attinente agli
obiettivi. Evidentemente,
diverso è l’approccio che Latouche propone nei confronti del Sud del
mondo, dove è sì ugualmente auspicabile, come nel Nord, una società
della decrescita con il suo circolo virtuoso, ma dove sicuramente essa
si porrà in termini diversi, in quanto le società del Sud non sono
realmente “società della crescita” e dove bisogna dunque limitarsi
ad eliminare gli ostacoli alla realizzazione di società autonome. In
definitiva, ecco perché decrescere: decrescere nel depredamento della
natura, quindi nella produzione, nel consumo, nei trasporti e dunque
nell’inquinamento e nella creazione di rifiuti organici e non, al fine
di vivere in un ambiente più bello e godibile, seppur facendo una vita
più sobria e frugale. Tutto ciò nella consapevolezza che la ricchezza
che ci rende effettivamente sereni e felici è
quella delle relazioni personali. La pienezza della nostra vita è data
dalla quantità e dalla qualità dei rapporti che abbiamo con gli altri
(siano essi parenti, amici, conoscenti occasionali ecc.), dal tempo che
trascorriamo con loro e dal modo in cui trascorriamo questo tempo
insieme. Vivere questi rapporti, che sono la nostra vera felicità, in
un ambiente che sia il nostro, più genuino, godibile, sobrio, sereno,
allegro in un contesto socio-economico, dove si ritorna a forme di
autoproduzione, dove il lavoro diminuisce e torna ad essere piacevole in
un certo ambito (come la campagna e l’artigianato), dove il mercato
torna ad avere la sua funzione di riunione popolare e riscopre lo
scambio culturale attraverso lo scambio prodotto-moneta o addirittura
prodotto-prodotto (il baratto) e dove la preoccupazione economica quasi
scompare, essendo questa una società conviviale e pressappoco
autosufficiente, non è forse più auspicabile che vivere in una società
della crescita come avviene invece oggi con tutti i disastri che ne
derivano? Fabio Lucido Balestrieri
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